Sono gli anni ’60, anni di rivolte, (quella razziale, quella contro la guerra in Vietnam) di assassinii, Kennedy, Martin Luther King, di Rivoluzione, e parallelamente alle rivoluzioni femministe e sessuali, prende piede una trasformazione socio-culturale ancora più significativa: il “boom economico”.
Si va via via diffondendo la cultura di massa, la mercificazione dell’uomo moderno che consolida come modello di vita il consumismo fine a sé stesso, preferendo un’apparenza colorata ed effimera alla sostanza svuotata e oramai troppo monotona.
Questa epoca dei virtuosismi artificiali, introduce un movimento artistico che esalta in maniera acritica gli aspetti consumistici della società moderna, amplificandoli fino ad esasperarli, raggiungendo una dimensione “parodistica” legittima all’artista che altro non è che un semplice specchio spersonalizzato del suo tempo.
La Pop Art nasce in Inghilterra nel 1956, ma si sviluppa come una tendenza artistica dominante durante tutto il corso degli anni ’60, in particolare negli Stati Uniti d’America.
Letteralmente significa “Arte Popolare” e fonda le radici nelle icone di massa, nelle immagini di uso comune identificabili da chiunque, riproponendo in chiave destrutturante e ironica, il vivace e attraente linguaggio dei mass media.
Stravolge completamente le regole rappresentative che avevano governato l’arte fino a quel momento, non si sottrae alla realtà bensì vi si immerge appieno, non rifiuta gli oggetti ma li utilizza, li spoglia da qualsiasi riferimento concettuale ed emozionale, privandoli così di ogni finalità, da ogni scopo.
Una delle personalità più significative della Pop Art fu sicuramente Andy Warhol, eccentrico ed eclettico artista, oltre a pittore infatti fu anche grafico e regista, fu il più trasgressivo, stravagante e ironico fra gli esponenti della corrente popolare. Artista enigmatico, le sue opere sono caratterizzate da un linguaggio totalmente privo di emozioni e da stile personale, si limita a rappresentare l’oggetto per quello che è, privo di idee, e lontano dall’impronta soggettiva, perché è il soggetto ad essere inglobato dall’oggetto. Warhol concepisce il concetto di ripetitività seriale, distaccandosi dalla rappresentazione accademica, giungendo ad una riproduzione meccanica dell’opera, immersa in una monotonia di replica che la priva da qualsiasi caratteristica distintiva.
Nelle sue celebri serigrafie, Warhol ha selezionato una raccolta di immagini che ritraggono dei personaggi “icona” del periodo in cui lui ha vissuto, Marilyn Monroe, Elvis Presley, Mao Tse Tung ecc. rappresentandoli in serie, attraverso uno stile freddo e artificiale, i volti privi di storia divengono involucri esterni di un trionfo mediatico, appartenenti ad un immaginario di icona collettiva. Volti da “consumare” spogli da interiorità simili ai manifesti pubblicitari, appiattiti volontariamente, quasi banalizzati e ridotti a meri elementi decorativi di massa. I cromatismi innaturali così, accendono le opere d’arte che nel loro vuoto ripetitivo riescono a produrre una coscienza nello spettatore alienato, restituendogli la consapevolezza di ciò che vede attraverso l’arte, che come affermava Alberto Boatto: “Warhol rifà le immagini che stanno sotto gli occhi di tutti per sottrarle all’”invisibilità” e renderle tanto vedibili da farcele scorgere e conoscere realmente”.
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