I ristoranti stanno allestendo menù fissi ad hoc con sconti speciali; pub e bar stanno ingaggiando spogliarellisti e camerieri disposti a servire seminudi ai tavoli; le discoteche stanno promuovendo concerti e serate a tema, che saranno free entry per le donne. Gruppi di donne prevalentemente sposate o fidanzate si stanno telefonando da giorni per mettersi d’accordo su dove? A che ora? Passo io o passi tu? Perché il quando già si sa: l’8 marzo. Quest’anno va bene anche ai fiorai perché la primavera tarda ad arrivare e le mimose non sono ancora al massimo della loro gialla rotondità, ma forse tra una settimana saranno pronte ad essere recise e donate in segno di amore, di augurio, forse anche in segno di rispetto.
Oggi la festa della donna, è un appuntamento a carattere squisitamente commerciale e consumista. Ma non è sempre stato così.
Nell’Italia libera la prima celebrazione della festa della donna risale al 1946. L’organizzazione della Festa avvenne ad opera dell’Udi (Unione Donne Italiane) che intendeva commemorare di lì in avanti « la tragedia di alcune operaie morte in un incendio in America nel 1908, perché avevano osato fare sciopero e il padrone le aveva chiuse a chiave in fabbrica».
L’evento tragico era stato rievocato la prima volta – secondo la storia diffusa dall’Udi – nel 1910 durante la conferenza internazionale delle donne socialiste tenutasi a Copenaghen. In questa occasione Clara Zetkin, delegata del Partito Socialista Tedesco, propose l’8 marzo come data per commemorare l’incendio e la morte delle operaie.
Il primo studio storico sulla genesi dell’8 marzo, condotto in Italia risale al 1985 ad opera di due militanti del movimento femminista, Tilde Capomazza e Marisa Ombra. Le due donne scoprirono che l’incendio del 1908 era un falso storico non documentabile e che Clara Zetkin effettivamente propose nel 1910 «di fissare una data unica e di mettere a tema il diritto di voto alle donne. Ma non se ne fece niente perché i socialisti su questo argomento erano molto divisi. Quindi né fu scelta la data, né si scelse un evento da commemorare».
Rewind.
Tilde e Marisa nel loro libro 8 marzo: Storie, miti e riti della giornata internazionale della donna [prima edizione Utopia, 1987; il volume è stato rieditato col titolo 8 marzo, una storia lunga un secolo da Jacobelli Editore nel 2009, con la prefazione di Loredana Lipperini e un dvd che racconta come sono cambiati - in 50 anni - i connotati della Festa della Donna] raccontano la verità sull’origine della festa della donna: nel 1920 Clara Zetkin era a capo del Segretariato per le donne, istituito all’interno della III Internazionale Comunista. Nell’estate del 1921 si riunì a Mosca la seconda conferenza delle donne comuniste che ottennero una data per celebrare il lavoro delle operaie. Il giorno prescelto era quello della protesta di Pietroburgo che vide le donne in prima fila contro lo zarismo: era l’inizio della rivoluzione russa. [La manifestazione era avvenuta il 23 febbraio 1917 del calendario giuliano vigente allora in Russia e che nel mondo occidentale corrispondeva all’8 marzo].
Indipendentemente dall’evento storico che diede origine alla festa, vi era – e vi è tutt’ora – l’esigenza di dedicare una giornata intera alle donne, al loro lavoro, alla loro storia.
La comunicazione interpersonale ci accompagna quotidianamente dai primissimi giorni della nostra vita.
Può sembrare un paradosso, ma comunicare è la prima cosa che impariamo a fare. Non si comunica infatti solo con il linguaggio verbale ma anche con il corpo, con le espressioni del viso, scegliendo un’intonazione invece di un’altra, o con i gesti che facciamo per accompagnare suoni e parole.
Per i neonati è una questione di sopravvivenza. Entrare immediatamente in comunicazione con chi li nutre e provvede ai loro bisogni è essenziale per loro. A quell’età si tratta naturalmente di un processo automatico, spontaneo e inevitabile, ma a seconda degli stimoli che ricevono, i bambini sviluppano modalità di comunicazione molto diverse.
Nei primi mesi di vita i bambini comunicano continuamente: pur non sapendo articolare un discorso, esprimono le loro esigenze primarie e riescono perfettamente a comunicare disagio, curiosità, eccitazione, serenità, e molte altre emozioni.
Di sicuro la comunicazione di un bambino molto piccolo riesce anche grazie all’abile traduzione di un genitore; il che ci porta nel cuore di questa riflessione: l’importanza dell’ascolto.
Infatti per rispondere efficacemente alla richiesta del figlio un genitore deve averla compresa perfettamente; deve quindi saper ascoltare: un pianto causato da un dolore fisico suona diversamente nell’orecchio di un genitore attento, rispetto a un pianto che è conseguenza di un capriccio o della noia.
Cappuccetto Rosso vede la luce nel 1680, con la pubblicazione in Francia de I racconti di Mamma Oca di Charles Perrault. La sua storia è inserita accanto a quella de La bella addormentata, Cenerentola, Il gatto con gli stivali e Pollicino. La fiaba di Perrault è molto semplice e a tempo stesso ricca di spunti. Eccone lo schema, abbastanza noto: una ragazzetta, a cui viene regalata una mantellina rossa, deve andare nel bosco per raggiungere la nonna malata e portarle generi di conforto. Le viene raccomandato di stare attenta ai lupi e di non abbandonare la strada maestra ma ella contravviene alle raccomandazioni, si ferma a raccogliere dei fiori e incontra il Lupo. Ingenuamente gli rivela l’ubicazione della casa della nonna. Cappuccetto cade quindi nella trappola del Lupo e alla fine sia lei che la nonna finiranno mangiate. Il finale di Perrault è senza salvezza: chi non ascolta le raccomandazioni finisce male. E’ evidente qui l’intento morale.
Diverge per la parte finale la fiaba riproposta dai fratelli Grimm nel 1857. In questo caso appare il Cacciatore, che si accorge del tranello del Lupo, lo uccide e estrae dalla sua pancia, illese, sia Cappuccetto che la nonna. La ragazzina riempirà poi il ventre del lupo con delle pietre, come a scorno di quest’ultimo.
Volendo andare a spulciare nelle suggestioni della mitografia scopriamo che il personaggio di Cappuccetto Rosso potrebbe avere radici molto più antiche di questi valenti autori: Cappuccetto potrebbe simboleggiare il dio Mercurio, dio dell’azione e del movimento dell’antica mitologia, portatore di farmaci, che indossa un copricapo per celare il suo volto e ha l’argento vivo addosso. Il dio si confronterebbe con altri principi fisico-alchemici rappresentati dal Lupo e dalla Nonna. In questo caso la casa della Nonna, (chiamata in Grimm casa delle tre Querce) potrebbe simboleggiare il luogo dove il mercurio e i metalli venivano forgiati e lavorati, quindi un luogo alchemico. Altra interpretazione vede in Cappuccetto Rosso il disco solare (da sempre associato alla divinità) che si fa strada nel bosco lottando con le tenebre, rappresentate dal Lupo.
Assolutamente da non sottovalutare poi l’identificazione di Cappuccetto Rosso con la Primavera (e qui c’è anche un collegamento con il Carnevale, momento in cui si manifestano i primi segnali della bella stagione) sottolineata dall’azione del raccogliere fiori. In questa modalità la competizione è con l’Inverno, rappresentato dal Lupo. Soffermandoci sul colore rosso della mantellina di Cappuccetto potremmo dire che questo colore ha sempre avuto tratti di ambiguità. Il rosso è un colore vitale, della luce, del fuoco, del sangue come vita ma può essere anche il colore della macchia, del sangue come ferita, malattia, morte, del peccato.
Inutile non rilevare la simbologia di carattere sessuale legata alla fiaba, specie nella versione di Perrault, dove l’età della protagonista non è così acerba come in altre versioni. Il colore rosso del mantello della ragazzetta Cappuccetto potrebbe rappresentare il rosso del mestruo e quindi della fertilità sessuale, per cui la raccomandazione di non perdere il sentiero e di stare attenta ai lupi da parte della madre è una chiara indicazione di far attenzione a preservare la propria verginità, tenere la retta via, e non farsi sedurre dal Lupo di turno.
Il Lupo poi è ovviamente parente di varie figure di mostri letterari (il vampiro, il lupo-mannaro, l’orco, il demone) con caratteristiche di male assoluto o invece estremamente umane, e in questo caso può accadere che la protagonista femminile finisce per innamorarsi delle caratteristiche umane di questo essere di norma infernale (vedi ad es. La Bella e la Bestia). Per terminare l’excursus citiamo, dopo quelle classiche, una figura moderna di Cappuccetto Rosso, all’interno della raccolta di racconti La camera di sangue di Angela Carter (1979). Qui troviamo un racconto intitolato Lupo-Alice in cui la protagonista femminile cede alle lusinghe del Lupo e accetta di mescolarsi ad esso, sia fisicamente che come sostanza: il Lupo diverrà in questo caso un po’ Cappuccetto e Cappuccetto diverrà un po’ Lupo.
Qualunque sia l’interpretazione che si voglia dare a questa fiaba immortale comunque possiamo dire che il suo fascino resta senza tempo e che essa rimane sempre una fonte di ispirazione per innumerevoli racconti.